Globalizzazione e solitudine: un grande contrasto della nostra epoca

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Forse mai come in questi ultimi dieci anni si è parlato di comunicazione, di scambi, di interattività, e forse mai come a partire dalla seconda metà del XX secolo si è tanto sentito parlare anche di solitudine e di isolamento.

L’angoscia dell’uomo separato e solo, più separato e più solo a causa dei trasferimenti, dei traslochi, degli sradicamenti, della crisi della famiglia e delle piccole comunità alle quali apparteneva un tempo, affiora un po’ dappertutto. Nello stesso momento da trent’anni a questa parte, assistiamo ad una ricerca insaziabile di indipendenza, spesso fonte di solitudine. Solitudine in molti casi mascherata da unioni o associazioni, peraltro generalmente di breve durata, nelle quali lo stare insieme dà calore senza creare obblighi troppo pesanti, tanto è vero che il sentimento di solitudine può percepirlo anche chi apparentemente solo non sembra.

Sono tanti i tipi di solitudine: quella forzata, in genere imposta dalle circostanze della vita, quali la prigionia, l’handicap, l’isolamento percettivo o l’abbandono di una persona cara. Vi è poi la solitudine voluta e ricercata. Quella del creativo, dell’asceta o di chi, nella quotidianità, sente il bisogno di trovare un momento suo, utile per rinnovarsi e ritrovarsi. Purtroppo questa ultima esigenza viene continuamente ostacolata dalla nostra vita tumultuosa, che ci travolge fino ad abolire questo stesso desiderio a cui si sostituisce una sovrabbondanza che ci soffoca. E’ un paradosso della nostra società e di noi stessi. Paradosso che è il riflesso delle nostre angosce e delle nostre carenze che trova nei fenomeni sociali l’amplificatore delle nostre aspirazioni divergenti. Vi è poi la solitudine imposta dalla società. I mezzi di comunicazione, i mass – media, gli slogan pubblicitari che invitano ad isolarsi, a distinguersi esprimendo modi di vita unici che accentuano l’individualismo.

Tali situazioni trovano spazio soprattutto nelle grandi città. Molti di noi scelgono di vivere in grandi centri proprio per avere maggiori contatti, per avere più amicizie, in sostanza, quindi, per sentirsi meno soli ed isolati. Eppure quante volte ci capita di sentirci soli tra la gente? Questa sensazione deriva dalla nostra difficoltà ad aprirci, ad instaurare un’intimità con l’altro, perché ne abbiamo paura.

Temiamo che i nostri spazi vengano invasi, temiamo che il nostro essere venga messo a nudo attraverso domande, curiosità, richieste, che rientrano in quello che dovrebbe essere un normale approccio per dare inizio ad una conoscenza più approfondita. Siamo affetti dalla cosiddetta “sindrome da ascensore”, cioè ci troviamo quotidianamente a stretto contatto con persone che magari conosciamo da anni, eppure in loro presenza il sentimento che prevale è l’indifferenza o l’imbarazzo. Il fatto è che ogni conoscenza più approfondita porta via del tempo, tempo che è sempre più prezioso nell’ambito della nostra frenetica quotidianità, per cui ci costringiamo ad una selezione delle energie da destinare che frequentemente porta a tralasciare l’approfondimento dei rapporti.
Proprio in tale contesto si inserisce l’uso spesso eccessivo delle tecnologie. Affidiamo le nostre parole, l’espressione dei nostri stati d’animo, a strumenti come il telefono, il cellulare, gli sms, in cui la corporeità è assente e con essa anche la parte più vera della persona. C’è poi il computer, straordinario strumento di lavoro e di gioco che però può contribuire a creare vere e proprie celle di isolamento.Tante persone, soprattutto giovani trascorrono ore davanti allo schermo di un computer, navigando in internet o parlando attraverso le chat ed i newsgroup. Apparentemente credono di comunicare. Ma bisognerebbe chiedersi qual è la qualità di questo tipo di comunicazione. Si tratta spesso di una comunicazione falsa e mascherata, che rischia di favorire l’isolamento e l’incapacità di sostenere un autentico rapporto con gli altri.

Uno dei periodi della vita più a rischio di solitudine è l’adolescenza. E’ un periodo molto complesso, fatto di cambiamenti a livello sia fisico che psichico. E’ una delicata fase di passaggio da un mondo fatto di giochi ed illusioni, ad uno caratterizzato da responsabilità e frequenti delusioni. In questo passaggio la creazione di un’identità forte e sicura gioca un ruolo fondamentale. “I giovani di oggi apparentemente sembrano avere tutto, ma in realtà manca loro qualcosa, cioè un’identità sicura, in un mondo pieno di input, un mondo veloce ed esigente che viene sollecitato continuamente dai mass media, dalla tecnologia, da modelli che mutano incessantemente e che confondono figli e genitori, giovani e vecchi, ragazzi e ragazze, che le istituzioni non riescono a seguire adeguatamente” (Lo Iacono, 2003). Essere adolescenti oggi è reso ancora più difficile dal fatto che la società e la stessa famiglia non sempre costituiscono saldi punti di riferimento. Da una parte, infatti, la società è esposta a continui mutamenti che coinvolgono vari livelli, politico, economico, culturale, valoriale; dall’altra la famiglia ha ormai una struttura fragile che le rende difficoltoso il ruolo di guida. A questa fragilità fatta di separazioni, divorzi, assenze, mancanza di tempo e di dialogo, si cerca di sopperire magari con l’indumento alla moda, il motorino, l’ultimo modello di computer, l’oggetto cioè diviene il surrogato dell’affettività genitoriale.

Quando la solitudine si trasforma in vera patologia l’adolescente, e non solo, può cercare rifugio in varie forme di dipendenza: farmaci, fumo, droga, cibo, alcool, televisione, internet. La dipendenza da un qualcosa è un modo, una inutile soluzione per sfuggire al dolore che si prova nel sentirsi soli. Le conseguenze patologiche della solitudine ovviamente non riguardano tutti, ma coloro che sono più deboli e meno pronti ad affrontare le difficoltà della vita. Altri periodi dell’esistenza di un uomo a forte rischio di solitudine sono la vecchiaia e la malattia. Da varie ricerche si evidenzia che le persone che soffrono disolitudine vivono meno a lungo ed hanno maggiori problemi legati alla salute, rispetto a coloro che non si sentono soli. A livello fisico la solitudine può modificare le funzioni cardiache, i ritmi del sonno, aumentare la pressione sanguigna, intensificare gli squilibri ormonali e diminuire le difese immunitarie.La stessa condizione di malato può generare solitudine.

Quanto alla vecchiaia sappiamo che il nostro è un paese di anziani e che ciò è avvertito con crescente preoccupazione. Gli anziani con i loro bisogni impegnano risorse, costituiscono un onere economico, sociale e sanitario di difficile gestione. Tutto ciò sta producendo un vero e proprio conflitto generazionale che ingenera negli stessi anziani sentimenti di frustrazione ed emarginazione. Il modo stesso in cui è strutturata ed organizzata la nostra società certo contribuisce a farli sentire più soli, dato che chi non è parte del sistema produttivo perde il suo valore e la sua utilità. La persona non sentendosi più utile tende a crearsi sensi di colpa e a perdere l’interesse stesso per la vita. A questo si aggiunge la grande trasformazione della famiglia, dalla condizione patriarcale a quella mononucleare e urbana, più ristretta e fragile che ha fatto si che l’anziano si trovi sempre più solo ad affrontare i vari problemi. Con le sue necessità egli diviene un peso per una piccola famiglia, in città dove spesso i servizi pubblici sono carenti e raramente offrono soluzioni adeguate per coloro che hanno più bisogno. Il progresso allunga la vita, ma la società dice che gli anziani vivono troppo a lungo. Così quando si perde l’autonomia la soluzione più ovvia è quella di ricorrere agli istituti e alle case di cura, luoghi che certo favoriscono sentimenti di solitudine, abbattimento e depressione.

Fra questi due estremi, l’adolescenza e la vecchiaia, ci sono tante altre solitudini, prima fra tutte quella della famiglia. Una famiglia in crisi, una famiglia in cui le unioni appaiono sempre più precarie e dove gli spazi per il dialogo e la comunicazione sono sempre più ristretti. La difficoltà di conciliare tempi di vita e di lavoro è sicuramente una delle cause che sottraggono alla famiglia l’attenzione e la cura necessarie per la sua stessa sopravvivenza. La mancanza di tempo, le preoccupazioni, tolgono spesso quelle energie che dovrebbero essere destinate a rafforzare il nucleo familiare per impedire che alla fine ci si ritrovi estranei e soli proprio al suo interno.
La solitudine non ha età e no ha condizione sociale; a prescindere dalla nostra personalità si può insinuare in ognuno di noi, arricchendolo o al contrario tormentandolo.

“La solitudine si scorge allora un po’ dappertutto, in ogni luogo, riflessa negli occhi della gente, nei loro comportamenti. Molte volte dietro la malattia, l’aggressività, le tossicodipendenze c’è una difficoltà ad accettarsi, c’è l’isolamento sociale e psicologico. Ed è proprio a questo punto che la persona inizia ad ammalarsi, cerca magari l’aiuto di vari specialisti per curare la sua speciale malattia la quale spesso non è altro che solitudine” (Lo Iacono, 2003).

La diffusione ed il radicamento sociale del problema solitudine non sembra purtroppo corrispondere ad un’altrettanta diffusione degli studi. Si tratta, infatti, di un fenomeno poco approfondito e conosciuto dalla gente; sembra quasi che il fatto stesso di non affrontarlo legittimi il non riconoscimento della sua esistenza. La solitudine viene elusa, forse prevenuta, aggirata, ma difficilmente affrontata esuperata. La soluzione di tale problema comporta quindi la necessità di studi ed approfondimenti ad un duplice livello sia sociale che psicologico.

A livello individuale occorre, invece, imparare ed insegnare ad assumersi le proprie responsabilità a qualsiasi età, “REAGIRE” alle mode massificatrici che divulgano il modello del “più sani, (più giovani), più belli”.E’ questa la solitudine “generazionale” di chi non riesce a dare valore, e quindi a svolgere il proprio ruolo sociale nelle varie fasi della propria vita: da figlio, da coniuge, da genitore, da nonno. Per reagire occorre un lungo e costante lavoro culturale che ponga al centro della Società la persona umana e che promuova una cultura dell’ESSERE e della costruzione del proprio essere, anche attraverso la riscoperta del senso della storia, della tradizione e della continuità e il recupero del rispetto per i valori che contano. Bisogna inoltre lottare contro la compulsività e le ansie che si stanno radicando nella nostra civiltà, che nel quotidiano determinano una ricerca affannosa di ciò che non si ha (che è quasi sempre solo il superfluo), mentre in un contesto più ampio conducono alla ricerca del potere espandendosi, guadagnando e conquistando a dispetto dell’altro, al prezzo altissimo di guerre e sopraffazioni di ogni genere. In questo contesto, il rilancio della psicologia sociale deve servire a cogliere dalle difficoltà sociali lo spunto per soluzioni comunitarie valide per ciascun individuo. La scienza in generale e la psicologia in particolare possono cioè fare molto non tanto e soltanto nello sviscerare i problemi, quanto nell’individuare e diffondere nuovi stimoli ed efficaci strumenti perché l’individuo possa ritornare ad essere soggetto attivo nella ricerca di nuovi percorsi e possa esercitare senso critico e capacità di valutazione nel rielaborare i messaggi che la società di oggi diffonde. Inoltre, la scienza può fornire un valido supporto ai più giovani affinché essi siano in grado di utilizzare le nuove tecnologie come nuovi ed efficaci strumenti per la propria formazione.

Di: Giovanni Maria Pirone (Direttore Generale Istituto Italiano di Medicina Sociale) e Emanuela Caravaggi Mazzonna (Collaboratrice a contatto presso l’Ufficio Stampa IIMS)

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