La solitudine e il fenomeno della dipendenza

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C’è un luogo comune che afferma che l’uomo nasce libero e che poi piano piano s’incatena attraverso i condizionamenti sociali. Quest’illusione di libertà si perde pian piano, di mano in mano che aumentano le responsabilità (la crescita) gli impegni, i progetti di un ideale di vita. Quindi la socializzazione e la politica può concorrere a questa fuga dalla libertà.

Paradossalmente invece l’uomo è uno degli esseri viventi meno autonomo e indipendente, poiché la maggior parte degli animali, già alla nascita è in grado di muoversi, di camminare e, in seguito di cercare la fonte d’alimentazione, mentre il cucciolo dell’uomo è totalmente dipendente dalle cure materne, a tal punto che alcuni psicoanalisti hanno ipotizzato che il bambino quando non vede più la madre, impara in qualche modo a sentirla dentro, cioè la interiorizza. Perciò si perde un oggetto e lo si ritrova in un gioco continuo e ripetuto per addestrarsi a sopportare l’assenza materna, fantasticando, parlando, creando e crescendo. Questa separazione, così decisiva per la costruzione del carattere, è ben rappresentata da Freud (1920 Al di là del principio del piacere), quando descrive il rituale di un bambino di diciotto mesi che gettava lontano un rocchetto legato ad un filo, per poi farlo, a suo piacimento, riapparire tirando lo spago. In qualche modo era una via, usata dal bambino, per risarcirsi dell’assenza della madre e per elaborare l’angoscia di separazione….

Ma ci sono innumerevoli situazioni in cui il distacco o le cure materne non adeguate diventano un’arma micidiale per l’evoluzione psicofisica dei bambini; un’esperienza per tutti fu quella che lo Psicoanalista francese René Spitz dimostrò riguardo all’influenza fatale della solitudine (mancanza d’amore) sui bambini trascurati che chiamò depressione anaclitica.

Questo rischio familiare, d’altro canto, nasce (si può dire) con il trauma della nascita (Otto Rank 1924), dove, spesso il neonato perde il suo Eden per essere scaraventato in un ambiente, molte volte, caotico e confuso, dove non è facile costruire le necessarie sicurezze per rendersi realmente indipendenti. Secondo le caratteristiche dei genitori, si può così andare da un’eccessiva pressione e controllo sul bambino di tipo simbiotico (quante madri hanno questi bisogni?) ad una progressiva emarginazione fino ad arrivare ad una vera e propria sindrome abbandonica.

Ma, d’altro lato, come dicevamo, crescere vuol dire anche essere più autonomi a livello motorio, sapersi procurare il cibo, difendersi da varie situazioni di pericolo, non aver quindi più bisogno dei genitori reali. Ma il rovescio della medaglia è un certo ritiramento dai giochi fantastici, dalla fantasia libera e un certo imprigionamento nelle abitudini acquisite che potrebbero poi diventare le piccole dipendenze ombra che ci condizionano la vita e ci creano delle stampelle di sopravvivenza in caso di bisogno.

Il mondo umano si configura quindi come un mondo della dipendenza, dove questa parola danza continuamente nel suo polivalente e ambiguo significato, che può andare a designare individui con comportamenti molto diversi. Takeo Doi, uno psicoanalista e psichiatra giapponese la descrive con la parola giapponese amae, riferendosi all’attaccamento di un bambino con la madre nel senso di essere avviluppato e sentirsi tutt’uno con lei. Egli afferma che ciò continua anche quando si è adulti. Essere così vicini a un’altra persona da essere indulgenti per questa debolezza senza imbarazzarsi. Il concetto fondamentale intorno a cui ruota il libro è quello di amae, concetto, rileva Takeo Doi, tipico della cultura giapponese ma intraducibile e assente nel mondo occidentale. L’esempio più pregnante di amae è quello dei rapporto che il bambino instaura con la madre dal primo anno di vita: Il bambino incomincia a vedere la madre come un qualcosa di separato da sé ma anche come un qualcuno che gli è indispensabile. La traduzione di amae potrebbe avvicinarsi al concetto di “dipendenza”: dipendenza affettiva o, in termini psicoanalitici, “amore passivo di oggetto” che contraddistingue la natura specifica della società e della cultura giapponese. Un altro esempio tipico di amae riguarda la figura dell’Imperatore.”L’imperatore si aspetta che quanti lo circondano sì occupino di ogni cosa, compreso, ovviamente, il governo dei paese. Per un verso egli dipende completamente da loro, ma dal punto di vista gerarchico è superiore a tutti. Quanto a dipendenza, non è diverso da un lattante, e tuttavia il suo è il rango più elevato del paese – prova innegabile dei rispetto accordato in Giappone alla dipendenza infantile.”

La dipendenza dal cibo è chiaramente collegata con il bisogno principale di tutti gli esseri viventi: il bisogno di alimentarsi per nutrirsi e sopravvivere. Questo bisogno naturale, fino a qualche tempo fa fu la maggior preoccupazione della maggior parte della popolazione mondiale fino al punto di mettere nelle preghiere la richiesta alla divinità “del pane quotidiano”. Ancora oggi nei paesi del terzo mondo, buona parte della popolazione muore letteralmente di fame. (Si calcola che nel mondo più di 1 miliardo e 300 milioni di persone (circa 1/3 della popolazione mondiale) ha un’alimentazione insufficiente. Secondo l’OMS, di questo 30% almeno 500 milioni non dispongono neppure di 1500 calorie il giorno, perciò soffrono di fame assoluta.Per non parlare del problema della sete. Le ultime ricerche fatte nel Terzo mondo indicano che in Africa circa il 75% della popolazione rurale non ha acqua potabile; in America latina sono il 77%; in Estremo oriente circa il 70%. In valori assoluti, sono più di 600 milioni le persone al mondo prive di acqua potabile).

In occidente, dove il tenore di vita riesce a sfamare tutti (o quasi tutti) oggi sempre più si cerca di offrire agli altri, prima cha a se stessi, un’immagine fisica attraente o per lo meno gradevole, perciò si ricorre a ogni sorta di sacrifici. Ciò è spinto, direi anche condizionato, dalla continua pubblicità dei mass media sui metodi di dimagrimento, su come diventare sempre più belli, su come ringiovanire e non perdere i capelli. Questi modelli proposti (tra indossatrici e anoressiche), hanno portato per contro un paradossale incremento delle bulimie e quindi dei casi di obesità. Una delle tecniche più diffuse per valutare l’autopercezione consiste nel disegnare il proprio corpo a grandezza naturale su un gran foglio. Si è notato che naturalmente la tendenza a sopravvalutare la grandezza del proprio corpo è più elevata tra le ragazze anoressiche e bulimiche, ma questa tendenza, appare, pur se in misura inferiore, anche in ragazze che non manifestano sintomi di patologia alimentare. Spesso in molte ragazze, ma ormai anche in molti ragazzi, appare un timore fobico di avere una deformità in qualche parte del corpo (dismorfofobia), sindrome che potrebbe collocarsi tra un’ipocondria estetica e una fobia sociale. Ma la cibomania vera e propria si esprime con la sindrome della Bulimia, questa fame smisurata e incontrollabile che comporta l’ingestione veloce di una gran quantità di cibo (qualcuno in un giorno può, talvolta, arrivare ad ingerire cibo per l’equivalente di più di ventimila calorie), che altro può essere se non un disperato tentativo di riempire i propri vuoti affettivi, la propria solitudine, la riconquista rabbiosa di un cibo affettivo che evidentemente non è stato erogato a sufficienza e che si placa solo quando inizia il mal di pancia, quindi il relativo pentimento con il senso di colpa per la paura di ingrassare…..

La dipendenza dalle parole è diventata molto ricorrente nella società contemporanea. E’ pur vero che “In principio era il verbo” dove verbo-Logos va inteso come ragione e parola che si pone come pensiero universale. Ma poi si presuppone che il pensiero possa prendere corpo cioè si possa incarnare nelle nostre belle individualità. In certe casi e in certe situazioni, sembra che le parole non bastino mai, quindi siamo sempre più sommersi di parole, ce ne lamentiamo e aumentiamo ancora di più questo flusso inarrestabile che nel tentativo di comunicare meglio, esprime, alla fine, un sordo rumore ed aumenta la confusione. Chiaramente ci sono molti distinguo.

Alcune parole (molte) servono da riempitivo, come sottofondo per accompagnare qualcuno che si sente solo e dipendente: molti comizi, la pubblicità, molte trasmissioni televisive e radiofoniche di intrattenimento, i talk show, le condoglianze, gli auguri, i gossip e tutti i pettegolezzi anche quelli che sembrano più seri, hanno riempito tutti i nostri silenzi….Alcuni parlano con tale autocompiacimento e con un atteggiamento da “che ne puoi sapere tu di queste cose!” che non resta più spazio per l’interlocutore. Altri parlano continuamente senza ascoltare l’altro. Ho avuto una paziente che veniva da lontano (in tutti i sensi) che ad ogni seduta raccontava la stessa storia. Si sentiva perseguitata, dalla famiglia, dai colleghi, dalla società.

Ogni volta raccontava la stessa storia e non voleva essere interrotta per nessuna ragione.

All’inizio di una seduta le io dissi ascolti quello che le devo dire e le raccontai la sua storia mettendo me come protagonista, poi le chiesi: forse lei mi può dare qualche consiglio? Lei rispose: “No la sua storia è del tutto diversa dalla mia” e prese a raccontare per l’ennesima volta la sua storia. Un’altra volta le dissi: la prossima volta forse lei potrebbe stare tutto il tempo in silenzio. Ma non ci fu per molto tempo una prossima volta, poiché sparì per tre mesi, poi mi richiamo per dirmi: ”dottore posso tornare per raccontarle la mia storia?”. Secondo una recente scoperta del Politecnico Rensslaer di Troy (New York) esiste una malattia chiamata CAD (Communication Addiction Disorder) che negli Stati Uniti colpisce il 16% della popolazione e si manifesta con una vera e propria ossessione che porta a chiacchierare incessantemente.

Questa sindrome che colpisce maggiormente le donne sembra che si manifesti attraverso questa necessità di parlare in maniera apparentemente incontrollabile. La mancata possibilità di soddisfare questo gran bisogno di parlare comporta sintomi tipici di “crisi di astinenza” simili a quelle da alcool, fumo e ogni altro tipo di dipendenza, droghe e internet incluse: nervosismo, ansia, depressione, nausea e mal di testa. Sembra anche accertato che questa sindrome colpisca prevalentemente le donne (almeno il doppio degli uomini) e tutti i malati abbiano in comune l’evidente tendenza a non riconoscere il proprio stato e a proiettare su chi li accusa “ingiustamente” di parlare troppo la propria nevrosi.

La teledipendenza è, in qualche modo, legata alla dipendenza dalle parole e dalle immagini per distrarsi da qualcosa che ci tormenta o addirittura per apprendere dei modelli per essere più accettati nella società in cui si vive. Quest’ambiguità tra l’informare e l’intrattenere rende la televisione uno strumento utile e pericoloso nello stesso tempo proprio per l’immenso potere che caratterizza la comunicazione a senso unico del messaggio televisivo. I due canali sensoriali attraverso cui si diffonde la TV (la vista e l’udito) può comportare, soprattutto se gli utenti non hanno ancora una piena maturità (i ragazzi e i giovani), per esempio, sia siano isolati sia socializzati, una totale soggiogazione dell’individuo che usa il mezzo ma, spesso n’è a sua volta usato. A tal proposito Karl R. Popper ha scritto: “Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino a quando il potere della televisione non sarà pienamente scoperto.”

L’alcoldipendenza, cioè il non poter fare a meno di bevande alcoliche (dipendenza antichissima) che in certi casi, inizialmente può aiutare le persone timide e solitarie a socializzare, è il classico “latte avvelenato” che con l’illusione di scoprire il paradiso fa precipitare in un inferno da cui è difficile uscirne senza danni a se stessi e, di solito, anche agli altri. Un bicchiere di vino. Che bello! Un modo come un altro per scacciare l’infelicità e/o i vuoti affettivi, sfidando l’alcol per dimostrare la propria superiorità nel controllo e, inesorabilmente, spesso soccombere, diventando più infelice, più confuso e per sentirsi, alla fine, un fallito.

Il carattere orale e quello in genere che determina le dipendenze orali, bere, mangiare eccessivamente, fumare etc., riguarda un soggetto generalmente passivo, dipendente, che ha paura di perdere l’amore o l’attenzione delle persone, questo lo rende deluso, insoddisfatto, insofferente anche ai piccoli accadimenti, avido nei rapporti interpersonali.

La dipendenza da lavoro è in continuo aumento nella società contemporanea. Da sempre il lavoro è stato il centro dell’attenzione dell’uomo. Anche se oggi si lavora di meno di due secoli fa, attualmente lo stress è molto superiore anche se la situazione è variabile, secondo il motivo dello stress collegato con il tipo di attività. Quindi per gli operai che lavorano in aziende a rischio lo stressor potrà essere l’ansia e il timore di incidenti, mentre per lavori ripetitivi può essere la noia, per i giornalisti di cronaca la fretta, per le casalinghe la solitudine, per i medici e gli psicologi la responsabilità, per i dirigenti in carriera la competizione, per gli artisti l’ispirazione. Naturalmente lo stress aumenta considerevolmente per tutte le categorie elencate (anche per altre) se i lavoratori sono iperambiziosi e ipercompetitivi, cioè persone che dedicano quasi tutte le proprie energie al lavoro. Senza arrivare al Karoshi giapponese, cioè alla morte provocata da un eccesso di lavoro vissuto come imposizione, molte persone diventano lavorodipendenti per colmare la propria aridità affettiva e la propria povertà emozionale. S’illudono che avendo più successo, più soldi e più potere, possano essere più accettati e acclamati dagli altri.

La dipendenza da lavoro comporta, in genere, l’acquisizione di vari disturbi e malattie (al di la di quelle specificamente professionali, le tecnopatie) che possono andare da un’ansietà e un’inquietudine con vuoti di memoria e tachicardia a un atteggiamento ipocondriaco, mal di testa cronico, insonnia, disturbi digestivi, anoressia, infarto, etc., ma può creare anche altri disagi relazionali, come comportamenti vessatori e calunnie verso colleghi e dipendenti, con comportamenti paranoici in cui ci si sente perseguitati da tutti, quindi si perseguita tutti: in altre parole il Mobbing.

Ma una forma particolare di lavorodipendenza è la psicopatologia del successo.

Molti individui non si rassegnano a perdere potere e visibilità. Ciò succede quando alcune persone diventano velocemente famosi ma poi improvvisamente cadono in disgrazia perché il pubblico e/o i seguaci non li seguono più. Quindi per non affrontare l’abbandono e la conseguente sensazione di solitudine spesso diventano alcolisti, tossicodipendenti, si ammalano gravemente e/o molto più direttamente si uccidono. Anticamente diventavano celebri pensatori, grandi artisti, scienziati, eroi; per diventarlo impiegavano, talvolta, tutta la vita, alcuni dovevano attendere di morire. Oggi basta qualche breve apparizione alla TV per diventare un mito da imitare, sia se il personaggio ci abbia mostrato come si lava durante qualche trasmissione voyeristica come “il grande fratello”, sia che abbia espresso qualche battuta, non necessariamente intelligente, in un talk show. Ma come è facile salire è ancora più facile scendere improvvisamente in caduta libera. Questa “caduta degli dei” è sempre più frequente. I mass media non fanno quasi in tempo a glorificarli che debbono con lo stesso ritmo costatarne la psicopatologia del successo, per la perdita del medesimo o per il livello di incompetenza che avevano raggiunto grazie al cambiamento repentino dell’esistenza e del ruolo sociale. I sintomi conseguenti possono essere disturbi della personalità, reazioni infantili, aggressività isteriche e immotivate, disagi psicosomatici, polidipendenza, depressione, infarto.

Ma una categoria particolare di dipendenza sono i codipendenti. Sono persone che pensando di colmare la propria solitudine, cercano in tutti i modi di aiutare gli altri diventandone, quindi, dipendenti e instaurando nell’altro una dipendenza.

Le caratteristiche più conosciute del codipendente sono:

1) credersi responsabili, nel bene e nel male, per gli altri

2) pensare di soffrire e provare il disagio che provano gli altri

3) sentirsi costretti ad intervenire per assistere qualcuno che non lo richiede

4) entrare in crisi quanto l’aiuto offerto sembra inefficace

5) cercare di anticipare i bisogni altrui

6) avere molta difficoltà a dire di no a qualcuno

7) non sapere realmente cosa si vuole

8) cercare di accontentare sempre prima gli altri

9) negare i propri pensieri ed emozioni per timore di essere se stessi

10) cercare di fare di tutto per diventare indispensabili

Naturalmente tutto questo crea scontentezza e aumenta l’insoddisfazione verso se stessi, essendo costretti a cercare la felicità fuori di sé e incentrare la propria vita su qualcun altro. Io credo che molti si riconosceranno in questo quadro o riconosceranno qualche parente o qualche amico.

Attenzione qualcuno di questi potrebbe essere pericoloso per sé e per gli altri anche perché sono individui che non riescono a incontrare veramente qualcuno poiché non sono consapevoli di chi sono veramente.

Il problema si può aggravare se qualche codipendente sceglie una professione d’aiuto (medico, psicologo, assistente sociale, etc), potrebbe farne un’arma micidiale contro gli utenti e alla fine anche contro se stesso. Le poesie, i racconti rosa, le favole, le canzoni, i film, le soap operas televisive sono un continuo inno allo stare insieme in questo modo, quindi molti sono condizionati da questi modelli. Molte persone vivono in coppia in modo codipendente. Alcune donne che hanno dedicato tutte se stesse al proprio uomo e magari glielo rimproverano continuamente, non rendendosi conto che hanno semplicemente seguito un loro bisogno compulsivo di dedicare la vita a qualcuno in modo simbiotico per coprire il loro vuoto, la loro solitudine esistenziale e la loro disperazione al pensiero di un abbandono. Ma la dipendenza coatta non è prerogativa soltanto delle donne, in questi ultimi decenni i ruoli si sono avvicinati e molti uomini temono l’indipendenza e l’autonomia. Spesso troviamo atteggiamenti di codipendenza anche in molte madri che non vorrebbero mai far crescere veramente i propri figli ma continuare in una simbiosi perinatale che potrà costruire nei giovani un forte senso di solitudine in caso di distacco. Oggi è facile trovare dei ragazzi trentacinquenni che vivono in famiglia senza nessun progetto di una vita autonoma. Per queste madri e anche per alcuni padri sarebbe utile la risposta del “Profeta” di Kahlil Gibran a una madre che gli chiede di parlare dei figli:

 

I vostri figli non sono i vostri figli.

Sono i figli e le figlie dell’ardore

che la vita ha per se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,

e benché vivano con voi non vi appartengono.

Potete dar loro il vostro nome ma non i vostri pensieri,

poiché essi hanno i loro pensieri.

Potete dar ricetto ai loro corpi ma non alle loro anime,

poiché le loro anime dimorano nella casa di domani,

che neppure in sogno vi è concesso di visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro,

ma non cercate di rendere essi simili a voi.

Poiché la vita non va mai indietro né indugia con l’ieri.

Voi siete gli archi da cui i vostri figli

come frecce vive sono scoccate.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,

e vi piega e vi flette con la sua forza

perché le sue frecce vadano veloci e lontane.

Fate che sia gioioso e lieto questo vostro

esser piegati dalla mano dell’arciere:

Poiché come ama la freccia che scaglia,

così egli ama anche l’arco che è saldo.

 

Dott. Antonio lo Iacono – Fonte Chat art