L’era della loneliness economy -un peso elevatissimo per la società

Betty Balzano
La solitudine ha già provocato una crisi in piena regola: economica, politica e sociale. «Solitudine non è solo la mancanza di compagnia o di supporto di amici e famigliari. Ma anche il senso di abbandono, la convinzione di essere emarginati dai colleghi di lavoro, dai membri della comunità e dal governo»,  sostiene l’economista britannica Noreena Hertz, a D, al telefono da Londra, dove insegna all’Institute for Global Prosperity dell’University College.
Tanti volti, tante storie, un solo denominatore: la solitudine. Una condizione con tante facce. Alcune positive e necessarie, altre insidiose e nascoste.C’è chi prova a indagarne il costo per la società, chi cerca una pillola per risolvere il problema e chi rivaluta il bisogno di solitudine.  C’è Carl, dirigente di Los Angeles, che spende 2mila dollari al mese per essere coccolato da uno sconosciuto. C’è Saito-San, pensionato di Tokyo, che ruba nei negozi per andare in prigione e trovare un po’ di compagnia. Ed Eric, panettiere di Parigi, convertitosi al Front National di Marine Le Pen pur di riuscire a trovare una comunità a cui appartenere.

 

L’economista ha pubblicato in Gran Bretagna The Lonely Century (Sceptre), un compendio sugli effetti e le conseguenze che la solitudine, specialmente durante questa lunghissima pandemia, potrebbe avere sulle sorti del mondo. È lei che ha raccolto le storie estreme di Carl, Saito- San ed Eric. La loneliness economy ha un prezzo elevatissimo per la società, ci racconta: «Questo debilitante senso di isolamento ha un impatto enorme sulla salute, come se si fumassero 15 sigarette al giorno. È quindi un peso per le economie nazionali, gravando sui sistemi sanitari: solo in Gran Bretagna si stima che la spesa ammonti a 2 miliardi di euro l’anno, per non parlare della perdita di produttività dovuta ai giorni di malattia (oltre a quelli di lockdown), che costa alle aziende un altro miliardo di euro. L’impatto della solitudine durante il 2020 non è stato misurato completamente, ma è una bomba a orologeria che prima o poi scoppierà».
Del resto il mercato, ancora prima del Covid, si era già modellato per rispondere al “bisogno di compagnia”. Pensiamo alla crescita dei festival di vario genere, delle classi di fitness come SoulCycle, delle escape room, dei robot sociali, che in Giappone sono diventati amici e badanti degli anziani». Ma a spingere Hertz a scrivere il saggio è stato il doppio filo che lega isolamento sociale e populismi ed estremismi, che dilagano. «Ho parlato con tanti elettori, in diversi Paesi», racconta. «Con Giorgio, per esempio, piccolo imprenditore milanese che mi ha mostrato il suo selfie con Matteo Salvini. Mi ha detto di sentirsi meno solo dopo essere diventato un elettore della Lega. Ha cominciato a partecipare alle riunioni, alle chat sui social, ha sentito di appartenere a un gruppo. Lo stesso Salvini e altri leader populisti, come Donald Trump e Marine Le Pen, usano il linguaggio come una coccola, parole come “mamma”, “papà”, “amici”. Parlano di “nostra comunità” per far credere agli elettori di essere entrati in un gruppo esclusivo, al quale gli altri, i “diversi” e “pericolosi”, non possono accedere. Tipicamente, quelli da tenere lontani sono immigrati e minoranze etniche. Diversi studi lo acclarano: chi si sente socialmente isolato ormai vota a destra, spesso estrema».

Totalmente diverso è l’approccio di Stephanie Cacioppo, che nel Brain Dynamics Laboratory dell’università di Chicago sta studiando una soluzione radicale al problema solitudine: una pillola. In particolare, l’ormone pregnenolone sembra promettente nel ridurre l’ansia provocata dall’isolamento sociale. «La solitudine è un segnale, come la fame o la sete. Non ha nulla a che fare con l’avere pochi amici», precisa. Vedova   di John Cacioppo, uno dei più grandi studiosi della solitudine, Stephanie ha continuato le ricerche dopo la scomparsa prematura del marito, nel 2018. La neuroscienziata non crede che la solitudine sia il risultato di condizioni economiche e sociali, ma piuttosto un prodotto dell’evoluzione. Così spiega a D la sua teoria: «Il segnale è un sistema di allarme, sviluppatosi a partire dai nostri antenati, che avvisa di eventuali pericoli e danni alle reti sociali. Perché sono così importanti? Perché, dall’alba dei tempi, appartenere a un gruppo significa aumentare la probabilità di sopravvivenza e anche quella di lasciare un’eredità genetica».

C’è invece l’aspetto positivo dell’estraniarsi. Ne parla il saggio In solitudine (San Paolo Edizioni) di Paola Corsano, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione dell’Università degli Studi di Parma. Per lei, la solitudine è soprattutto un paradosso. «Può essere temuta, ma anche ricercata. Nel secondo caso è l’espressione di competenze specifiche: la capacità di riflettere su di sé, di trovare, mettere a frutto e valorizzare le proprie risorse, di agire in modo autodeterminato e di fare a meno degli altri, ma solo perché in precedenza si sono costruite relazioni solide. Siamo in grado di stare soli senza sentimenti negativi in quanto in grado di stare con gli altri. In questo caso, secondo la nota psicoanalista Françoise Dolto, si parla di solitudine “felice”». Nel libro Corsano cita un altro celebre psicologo, Masud Khan, che ha definito l’esperienza di disimpegno dagli altri come “stare a maggese”, un termine che indica, in agricoltura, lo stato di un terreno che periodicamente viene messo a riposo per fargli riguadagnare la fertilità. Tradotto: stare soli consente di ritrovare dentro di sé, rigenerandole, risorse che si erano esaurite.
In tutte le fasi della vita, anche nei bambini di poche settimane, il bisogno di solitudine è quindi importante e andrebbe sempre soddisfatto. «Tutti parlano della necessità di connessione e vicinanza, soprattutto da quando il mondo è sotto pandemia », conclude Corsano. «Ma non va dimenticato il bisogno della forma buona di solitudine: una risorsa evolutiva che aiuta a migliorarsi».

CHI SOFFRE DI PIÙ?
Il problema della solitudine in Italia? È abbastanza diffuso, secondo il 58% dei connazionali; molto diffuso secondo il 25%. Lo sostiene una ricerca effettuata da Ipsos, con il consorzio Comieco e la fondazione Symbola. L’11% dei nostri connazionali ha ammesso di sentirsi isolato molto spesso, mentre il 37% ogni tanto e il 31% quasi mai.

 

AFFITTA UN AMICO
Sono oltre 600mila in tutto il mondo, anche in Italia. Sono disponibili e pronti a chiacchierare, a fare compagnia, a bere un caffè o a riempire una pausa pranzo. Sono amici in affitto. Uomini e donne che per 20-30 euro all’ora diventano buoni confidenti. Il servizio Rent a friend è nato in Usa nel 2009 da un’idea dell’imprenditore Scott Rosenbaum e si è allargato in tutto il mondo. Basta indicare la città in cui si vive per vedere comparire la lista di fake friend disponibili. Tutti hanno una scheda con foto, presentazione e attività a cui si prestano (strettamente platoniche). Per contattarli direttamente, però, bisogna diventare membri pagando 25 dollari al mese o 70 all’anno.

La solitudine è un posto affollato

Quanto ci sono mancati i musei, le mostre e i cinema in questo annus horribilis di pandemia? Anche il mondo dell’arte ha sofferto l’isolamento: perché l’artista crea da solo, ma poi ha bisogno di applausi
di Maurizio Fiorino

…Ruota tutto, da sempre, attorno alla solitudine e mai, come in questi giorni, l’arte sembra volerci parlare. In fondo ha sempre parlato di noi – e a noi – in una maniera che non saremo mai in grado di descrivere a parole con la pienezza e completezza che questo rapporto meriterebbe. Forse, se riuscissimo a definire quel misterioso punto di contatto che c’è tra la nostra solitudine e quella dell’artista, non sarebbe più arte. Sarebbe, banalmente, altro. A tal proposito, in questi bizzarri mesi della nostra esistenza in cui siamo stati costretti a diventare gli unici inquilini della nostra solitudine, l’arte “è stata isolata” ancora di più. Chiusi i musei, niente più mostre, cinema e festival. Tanto che a qualcuno è apparsa stonata la decisione di serrare i luoghi dell’arte invece che di spalancarne gli ingressi – se possibile, anche di notte, pur con tutte le precauzioni e le regole di sicurezza del caso – in modo tale da far ritrovare noi stessi davanti a un’opera. Sarebbe stato salutare e, in qualche modo, anche rivoluzionario.

C’è un quadro di Edward Hopper che si intitola Nighthawks, “I nottambuli”. Il pittore, celebre misantropo, lo iniziò nel 1941 in uno stanzino il cui ingresso era vietato a chiunque, moglie compresa. Dopo aver vagato giorni interi in una gelida New York, all’improvviso mise a fuoco qualcosa. Cominciò a vedere il quadro, mentre fuori dal suo universo di solitudine il mondo stava per cambiare, per sempre. In quei giorni venne sferrato l’attacco a Pearl Harbor, l’America decise di entrare in guerra e Hitler minacciò di distruggere New York. Mentre Jo, la moglie, preparava una borsa con dentro soldi, vestiti e sapone, lui se ne stava davanti a uno specchio,  immaginando la propria sagoma china sul bancone di un bar. «Non ha altri interessi», scriverà Jo in una lettera. Perché è vero quel che dirà Paul Auster qualche decennio dopo, ovvero che “se in una stanza c’è una persona sola, in realtà ce ne sono due”. Un mese dopo, il dipinto era finito: quattro sagome all’interno di un bar deserto in una via desolata, tra loro nessuna interazione. Il resto è storia dell’arte. Ma anche storia nostra. Perché nonostante sia uno dei dipinti più visti, riprodotti, imitati al mondo, pochi si accorgono di un piccolo particolare che rende il dipinto inquietante: quella che appare come una caffetteria notturna è una gabbia di vetro. Si intravede una piccola porta che forse porta in una cucina, ma non esiste via d’uscita, né d’entrata. È un luogo, insomma, completamente sigillato. Isolato.
Olivia Laing, che alla vicenda di Hopper e di altri solitari ha dedicato un libro – Città sola (Il Saggiatore) – ha indagato su quanto l’autoisolamento di chi crea sia una condizione che gli artisti conoscono bene e sentono propria sin dai tempi dei tempi. Poiché, sostiene Laing, la solitudine altro non è che un posto affollato.