MESI di lockdown totale, poi le misure di distanziamento sociale, le raccomandazioni a non frequentare troppe persone, a costruirsi anzi una ristretta “bolla sociale”. E ancora: limitare gli spostamenti, evitare i soggetti fragili, la desertificazione delle occasioni di incontro, ridotte al minimo. Psicologi e psicoterapeuti discutono da tempo delle conseguenze di questo severo regime sulla salute mentale, della cosiddetta “Covid fatigue” e del ribaltamento della vita quotidiana. Per mesi, gran parte delle persone non ha visto che i propri partner, forse qualche amico o familiare più stretto, il resto è stato affidato a videochiamate e altri canali di comunicazione. Adesso uno studio del Massachusetts Institute of Technology di Boston spiega che l’isolamento e la solitudine provate in questi mesi condividono una base neurale col desiderio di cibo che proviamo quando abbiamo fame.

Il desiderio

“Le persone forzate all’isolamento desiderano interazioni sociali in modo simile a quello in cui un affamato si mette in cerca di cibo – spiega Rebecca Saxe, John W. Jarve Professor in Scienze cognitive e cerebrali al Mit e coautrice dello studio – le nostre scoperte confermano l’idea piuttosto intuitiva che le interazioni sociali positive siano un bisogno umano di base e che la solitudine acuta costituisca uno stato di avversione che motiva le persone a colmare ciò che manca, in maniera simile a quando abbiamo fame”. I ricercatori hanno infatti scoperto che dopo un giorno di isolamento totale la vista di persone che si divertivano insieme ha attivato nel cervello dei volontari le stesse regioni cerebrali che si mettono in moto quando a qualcuno che non ha mangiato per tutto il giorno viene mostrata una foto di un piatto di pastasciutta.

I dati della ricerca – pubblicata su Nature Neuroscience con prima firma Livia Tomova dell’università di Cambridge già postdoc al Mit e finanziata fra l’altro dal Sfari Explorer Grant from the Simons Foundation – sono stati raccolti fra 2018 e 2019. Dunque ben prima dell’esplosione della pandemia e delle misure restrittive che hanno profondamente mutilato le nostre esistenze. E in realtà lo studio, ispirato a un altro paper del 2016 che individuò un cluster di neuroni nel cervello dei topi che stimolava proprio l’interazione sociale dopo una fase di isolamento, non è che un tassello di un programma ben più ampio il cui obiettivo è indagare in che modo lo stress sociale influenzi atteggiamenti e motivazioni delle persone. D’altronde se molti studi negli esseri umani hanno documentato i disagi emotivi e psicologici dell’isolamento, mancavano in gran parte i fondamenti neurologici che questo studio prova invece a verificare

Il test “Volevamo vedere se potessimo indurre in modo sperimentale un certo genere di stress social nel contesto del quale potessimo avere il controllo effettivo su questo stress – ha spiegato Saxe – un intervento sull’isolamento sociale più profondo di quanto fosse stato tentato in precedenza”. Hanno partecipato volontari in salute, principalmente studenti del college, che sono stati confinati in una stanza senza finestre nel campus del Mit per ben dieci ore. Non hanno potuto usare gli smartphone ma nella stanza c’era un pc con cui eventualmente contattare i ricercatori in caso di emergenza. Dovevano riferire i loro passaggi in bagno, per evitare che si incrociassero con altri volontari, e il cibo è stato recapitato alla porta: un’esperienza molto simile a quelle che abbiamo vissuto durante i lockdown più serrati in giro per il mondo e anche in Italia.

Le conclusioni

Il risultato? Alla vista di foto di persone in piena interazione o divertimento il segnale di attivazione neurologica in quell’area è stato simile a quello prodotto alla vista di foto di cibo dopo la giornata di digiuno. Non solo: la quantità di attivazione della sostanza nera di Sommering si è dimostrata correlata a quanto più fortemente i pazienti avevano valutato il loro desiderio di cibo o interazioni. In entrambi i casi, insomma, avevano fame di una delle due condizioni: alimentarsi di sostanze nutritive o di rapporti sociali.

Ovviamente non tutti i volontari hanno reagito allo stesso modo: un fattore che ha influenzato la risposta cerebrale è stato per esempio i loro normali livelli di solitudine. Da che punto, insomma, partivano. Chi, per esempio, ha spiegato di sentirsi cronicamente isolato per mesi prima dello studio ha mostrato un’attivazione minore della substantia nigra rispetto a chi aveva invece documentato una vita sociale particolarmente ricca e soddisfacente. I primi, in qualche modo, avevano meno fame rispetto a quelli catapultati all’improvviso in cattività, come ha confermato anche Saxe.

I prossimi passi

Sono state osservate anche altre regioni del cervello, per esempio la corteccia e l’insieme di nuclei del corpo striato, componente sottocorticale del telencefalo: fame e isolamento hanno attivato aree distinte anche di quelle regioni. Questo suggerisce dunque che queste regioni cerebrali siano più specializzate nella risposta a differenti tipologie di privazione, mentre la sostanza nera di Sommering sembrerebbe riassumerle tutte, agendo quasi da campanello d’allarme per vari tipi di mancanze, fisiologiche o sociali che siano e che condividono dunque la medesima importanza in termini di bisogni umani. Il prossimo passaggio? Rispondere a molte altre domande: per esempio, in che modo l’isolamento sociale interviene nell’atteggiamento? E i contatti virtuali, per esempio le videocall di cui ci ubriachiamo ogni giorno da mesi, possono alleviare questa sensazione, e se sì in quali gruppi o fasce d’età?