Le radici della solitudine

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L’isolamento emotivo o quello sociale possono determinare uno dei “mali” psicologici più difficili da contrastare

La solitudine è una condizione molto diffusa e non soltanto nelle grandi città: un’inchiesta svolta di recente negli Stati Uniti dimostra che circa un quarto delle persone intervistate aveva sofferto di solitudine nelle settimane precedenti e che parte di loro si era sentita molto solitaria o depressa e molto infelice.

In media le donne si sentivano più sole degli uomini così come era superiore la percentuale di persone con un reddito basso che avevano dichiarato di essersi sentite sole e depresse. Malgrado la solitudine sia una condizione largamente diffusa, essa non è stata finora al centro di ricerche dettagliate: la solitudine – con i suoi drammi – fa spesso notizia sui giornali ma non è sufficientemente considerata dagli studiosi del comportamento, anche se si tratta di un’esperienza talmente angosciante e dolorosa che le persone fanno il possibile per evitarla.

Persino le persone estremamente timide, ad esempio, fanno grandi sforzi per cercare dei contatti sociali vincendo l’ansietà suscitata dagli approcci dai quali rifuggirebbero.

Ma cos’è la solitudine, o meglio in cosa si differenzia da altri aspetti della nostra esistenza e dei nostri stati mentali?
Anzitutto esiste una differenza tra solitudine e depressione: la prima può generare la seconda, ma depressione e solitudine non sono la stessa cosa.

Nella solitudine, in linea di massima, le persone tentano di allacciare nuovi contatti sociali o di ripristinare le relazioni perdute: e se una persona sola trova un inserimento sociale soddisfacente la sua situazione psicologica cambia e non si sente più sola.

Una persona depressa, invece, è cristallizzata nella sua condizione, non cerca soluzioni, il suo stato umorale non è modificato dai rapporti con gli altri.

Una seconda differenza riguarda le caratteristiche della solitudine e dell’isolamento: si può infatti essere isolati senza sentirsi soli e sentirsi soli anche in mezzo a una folla. 

Per una persona anziana o un detenuto, la difficoltà o l’impossibilità di entrare in contatto con altre persone o con le persone che si vorrebbero incontrare, può comportare uno stato di solitudine che ha profonde conseguenze emotive e accompagnarsi a stati depressivi o di angoscia che derivano dalla mancanza di contatti umani e di intimità sociale. Questa forma di solitudine è ben diversa da quei tipi di isolamento scelti volontariamente da quanti vanno alla ricerca di introspezione per sottrarsi a un ambiente confusionario o per dedicarsi a se stessi o ad attività che richiedono concentrazione e tranquillità.

A differenza delle forme di isolamento ricercate intenzionalmente, la maggior parte delle forme di solitudine subita vengono invece vissute in maniera negativa e angosciante, come ad esempio avviene per quanti vivono o si sentono soli nelle grandi città in cui si può vivere una condizione di alienazione, essere isolati nel lavoro e privi di relazioni sociali, il che può innescare comportamenti depressivi, con tutte le conseguenze che essi implicano.

È indubbio che la vita nei grandi agglomerati cittadini facilita l’isolamento e fa sì che in molte situazioni si ignori la vita personale del collega di ufficio, del vicino di casa o della cassiera del negozio o del supermercato all’angolo che incontriamo quotidianamente.

Un celebre psicologo americano, Stanley Milgram, ha descritto questa condizione tipica della vita urbana moderna, delineando la figura del cosiddetto “estraneo conosciuto”:

Per vari anni sono stato pendolare su un treno. Ho notato che c’era della gente nella stazione che avevo visto per diversi anni ma con cui non avevo mai parlato, persone che per me erano degli estranei conosciuti. Trovo che questa situazione dia luogo ad una specie di tensione perché le persone si comportano con gli altri come se si trattasse di elementi dell’ambiente circostante piuttosto che di individui. Succede spesso e si accompagna ad una sensazione che è sgradevole, specialmente quando si è soltanto in due alla stazione: tu e qualcuno che hai visto ogni giorno ma con cui non hai mai comunicato.

Questo che abbiamo appena citato è un esempio di isolamento legato alla mancanza di comunicazione tra persone che vivono esistenze parallele ma senza entrare in rapporto tra loro: è una forma di separazione che rappresenta uno dei tanti aspetti della spersonalizzazione della vita urbana e può essere alla base della solitudine che molti patiscono.

È tuttavia semplicistico guardare alla solitudine soltanto in termini di dinamiche urbane, inquadrandola esclusivamente alla luce della sociologia: una persona, infatti, può sentirsi sola per una perdita affettiva, per il distacco temporaneo da una persona amata, per il trovarsi a vivere in un ambiente nuovo ed estraneo, per la mancanza di relazioni o per la separazione forzata dalla propria famiglia ed amicizie.
La solitudine, che la si consideri dal punto di vista sociologico o psicologico, è infatti una condizione che ha origini e cause diverse, anche se poi si traduce in uno stesso “sintomo”, cioè in uno stato profondo di disagio, spesso di angoscia intollerabile.

Gli psicologi sperimentali hanno cercato di far luce sulle radici e dinamiche della solitudine, sia di quella che deriva dall’isolamento emotivoche può trarre la sua origine dalla mancanza o dalla perdita di una figura cara, come ad esempio il genitore, il coniuge, un partner o il figlio – sia di quella che scaturisce da un isolamento sociale, cioè dalla mancanza di amicizie, dalla difficoltà di stabilire relazioni sociali soddisfacenti o dalla impossibilità di farlo.

In entrambi i casi la solitudine è dovuta al fatto che non vengono soddisfatte due importanti esigenze della nostra mente, vale a dire la necessità di attaccamento affettivo e la necessità di vivere in un ambiente ricco di stimoli.

Consideriamo anzitutto il primo aspetto che spiega una serie di reazioni umorali ed emotive determinate dal distacco dalle persone care e dalla solitudine: alla sua base c’è il cosiddetto attaccamento che nella specie umana, ma anche in molti mammiferi sociali, è equiparabile a una vera e propria pulsione istintiva come la fame, la sete, la sessualità.

Dal punto di vista della nostra storia naturale, l’attaccamento alla madre da parte del bambino e il bisogno di socialità da parte dell’ adulto hanno un simile significato: quello di rappresentare, o di aver rappresentato nella preistoria dell’umanità, un vantaggio per la specie umana in quanto la lontananza dalla madre o la mancanza di coesione sociale aumentano il rischio di pericolo per l’individuo e pongono a repentaglio la sopravvivenza del singolo individuo e del gruppo. Bene o male, malgrado le tante distorsioni del comportamento dei singoli o di gruppo, siamo una specie sociale che ha bisogno di legami affettivi per cementare la sua unione e assicurare la propria sopravvivenza.

John Bowlby, lo psicologo evoluzionista cui dobbiamo i primi studi sull’attaccamento, ha analizzato in dettaglio il comportamento dei bambini separati dalla madre, notando che soprattutto tra il settimo e il nono mese di vita di un neonato, in seguito alla separazione emerge sempre una triade comportamentale basata sulla protesta, sulla disperazione ed infine sul distacco. Inizialmente il bambino protesta con pianti e strilli, poi subentrano espressioni facciali e comportamenti di disperazione, infine uno stato di distacco, simile alla depressione, in cui il bambino ignora la sua figura di attaccamento, non dà segni di riconoscere la madre.

Questi comportamenti hanno vere e proprie radici biologiche che, come abbiamo accennato, fanno capo a un meccanismo importante per la specie umana in quanto favoriscono la sopravvivenza dell’individuo in situazioni di pericolo: se un piccolo non desse segni di disagio in seguito alla separazione dalla figura materna, la sua sopravvivenza sarebbe a rischio e gli stessi adulti, probabilmente, non si profonderebbero in quelle cure che vengono innescate dalle sue proteste.

Si tratta di un meccanismo di segnalazione del proprio disagio interno che sopravvive nell’adulto e, sia pure modificato dalle esperienze e dallo sviluppo di un’emotività matura, esprime il disagio e il dolore suscitati da qualsiasi tipo di separazione, da quella tra partner a quella legata al lutto, da quella concernente un lungo viaggio a quella legata alla detenzione carceraria.

Il secondo tipo di isolamento, quello sociale, non implica soltanto reazioni che fanno capo all’attaccamento e alle emozioni ma anche vere e proprie esigenze del nostro cervello e della nostra mente, bisognosi di stimoli.

La ricerca di contatti sociali risponde infatti a quella “fame” di nuovi stimoli e di novità che caratterizzano il cervello evoluto della specie umana, alla continua ricerca di situazioni non dominate dalla monotonia. Per la sua complessità strutturale il cervello ha bisogno di una stimolazione ininterrotta: persino durante il sonno esso viene ritmicamente bombardato di stimoli, prodotti da alcuni suoi nuclei profondi che, oltre a generare i sogni, danno vita a un’attività elettrica che percorre i suoi circuiti nervosi, “lubrificandoli” anche quando il sistema nervoso è in una fase di riposo notturno.

Se spinta agli estremi, la mancanza di stimoli può divenire intollerabile al punto che il cervello cerca di rimediare producendo stimoli al suo interno: in alcune situazioni di deprivazione estrema, come può essere l’isolamento totale, il cervello va incontro a vere e proprie allucinazioni che si accompagnano a suoni, immagini e sensazioni distorte. Gli studi su volontari che si sono sottoposti a forme estreme di isolamento caratterizzate da ambienti completamente privi di suoni, illuminati da una luce e da una temperatura uniformi e in cui gli stimoli tattili erano ridotti al massimo, hanno dimostrato che ben presto subentrano forme allucinatorie e lievi psicosi indotte, appunto, dalla mancanza di stimolazione cerebrale. In termini meno drammatici, la monotonia e la noia rappresentano una condizione molto negativa, si tratti di un bambino che non ha una rete di amicizie e che vive isolato dal gruppo, di un anziano solo nella sua casa, di un detenuto privo di contatti e di interessi.

In conclusione, la solitudine – come abbiamo accennato in precedenza – è una risposta, uno stato d’animo legato alla mancanza di una particolare relazione affettiva o di relazioni sociali significative e, più in generale, di stimoli che nutrano il nostro cervello.

È quindi importante che in un ambiente carcerario si faccia il possibile per promuovere tutte quelle forme di aggregazione sociale e di “arricchimento” ambientale che contrastino le conseguenze negative della separazione dai propri affetti e dalla propria rete sociale, oltre che la monotonia di un ambiente i cui ritmi tendono ad essere ripetitivi e sempre uguali.

Alberto Oliviero – Fonte: leduecitta.com  rivista mensile penitenziaria

Alberto Oliverio è professore di Psicobiologia all’Università di Roma “La Sapienza”, scrittore, editorialista, tra i suoi libri più recenti: “Dove ci porta la scienza”, “L’arte di ricordare”, “Memoria e oblìo”, “Le età della mente”.