Non siamo fatti per essere soli – Prof. Eugenio Borgna

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Estratto dalla trascrizione del meeting del 28 agosto 2008 a Rimini “Non siamo fatti per essere soli”

 

Il Prof. Borgna è Primario emerito di Psichiatria presso l’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali all’Università degli Studi di Milano,

 Trascrizione Intervento Prof. EUGENIO BORGNA 

. ….Il tema è straordinariamente bello, intenso, passibile anche, se vogliamo, di diverse possibili interpretazioni.

Non è possibile confrontarsi con un tema come questo, “Non siamo fatti per essere soli”, se non partendo da due premesse: la prima è che soltanto se ci educhiamo a sentire, a rivivere, ad analizzare, a sondare quelli che sono i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre attitudini anche alla preghiera, soltanto se ci educhiamo a cogliere che cosa si muova nei segreti della nostra interiorità, possiamo cercare di cogliere qualcosa di quello che avviene nella vita, ma soprattutto nei sentimenti, nelle emozioni, nell’interiorità, negli altri. Allora non c’è conoscenza psichiatrica, non c’è nemmeno un ponte aperto alla comunicazione che oltrepassi le nostre singole solitudini verso quegli orizzonti di comunione, di comunicazione, di infinito che rappresentano in fondo il vero senso della vita.

Dobbiamo cominciare però, a volte faticosamente, a fare i conti con la paura di guardare dentro di noi, con la paura di scambiare le nostre debolezze attraverso esperienze e avvenimenti che non possiamo soltanto cancellare. Ricordiamo, come ha scritto San Paolo, che proprio le nostre debolezze sono la nostra forza. San Paolo poi si diceva fiero della sua debolezza, dei suoi errori, delle sue stanchezze, dei suoi tradimenti. E allora non stanchiamoci di guardare dentro di noi, non stanchiamoci di guardare negli occhi le persone che vivono accanto a noi, o che, anche solo temporaneamente, ci sfiorano. Non stanchiamoci soprattutto di guardare al di là di quella che è una condizione solo apparentemente simile alla solitudine, cioè l’isolamento perché in realtà sono due esperienze umane totalmente diverse l’una dall’altra.

Nella solitudine, nella vera solitudine, si vive infatti un’apertura continua e infinita, come anche Don Giussani ha scritto, mentre in quella deformazione della solitudine autentica, che possiamo chiamare isolamento, viene meno non solo ogni speranza, non solo ogni desiderio di incontrare l’altro, ma anche ogni intenzione di infinito. Allora faccio una citazione breve da Don Giussani, che queste cose le ha detto molto meglio di come sto tentando di fare ora io, perché descrive un cammino che non avrei potuto fare se non appunto accompagnandomi alla rilettura, o comunque alla rinascita dentro di me, di alcune di queste folgoranti intenzioni, umanissime e cristiane, psicologiche e metafisiche, che rendono unica la grandezza di Don Giussani. Ascoltiamolo: “Dobbiamo prima di tutto aprirci a noi stessi, cioè accorgerci delle nostre esperienze. Guardare con simpatia l’umano che è in noi. Dobbiamo prendere in considerazione quello che siamo veramente, considerare vuol dire prendere sul serio quello che proviamo, tutto, sorprenderne tutti gli aspetti, cercarne tutto il significato”.

In una di queste riflessioni di Don Giussani, in fondo, si raccoglie il senso di quello che ho cercato di dire fino ad ora, e cioè che solo partendo da questa ricerca continua, profonda, a volte affannosa, a volte anche pericolosa, di quello che noi siamo nei nostri aspetti umani e cristiani, possiamo meglio intendere che cosa significhi questa frase meravigliosa, che intende sottolineare il destino, che è un’altra parola magica, un’altra parola su cui Don Giussani ha costruito questo movimento di inaudita forza spirituale prima di tutto, ma anche di una straordinaria forza di irradiazione. Ripartiamo ogni volta quando ci incontriamo con gli altri, soprattutto quando intravediamo negli altri delle ombre che possono essere a volte strazianti, come quello che ho visto in questo dvd sulle condizioni carcerarie, soltanto se mettiamo a confronto continuamente gli avvenimenti esteriori con quelli interiori che accadono in noi. Allora possiamo realizzarci, possiamo anche oltrepassare quella tentazione alla solitudine che a volte nasce perché ci lasciamo imprigionare dagli egoismi, dalle apatie, dalle indifferenze, dai rifiuti, a volte certo anche giustificati.

La seconda premessa, per addentrarci in un contesto più ampio, è questa: al di là di quello che noi siamo, al di là delle nostre condizioni di solitudine e di isolamento, possiamo essere soli anche in mezzo a famiglie intere, possiamo sentirci soli anche all’interno di una folla immensa e invece non sentirci soli anche quando fossimo nel deserto. “Il grande silenzio”, che è stato fatto in un monastero certosino in Francia, nell’alta Savoia, ci dice come anche nel silenzio assoluto, anche in un colloquio che passa soltanto dalla preghiera, dalla preghiera anche comune, con la voce della bellezza di queste montagne incantate, innevate, si possa riscattare la propria apparente solitudine negativa per farne invece la più alta e profonda esperienza, anche se per noi che viviamo nel mondo non può se non essere soltanto un momento della nostra vita: guai se vivessimo soltanto sprofondati ininterrottamente anche nella solitudine più autentica e profonda! Dunque la seconda premessa è la libertà, e anche qui le parole che ha scritto don Giussani sono tra le più profonde. Io leggo moltissimo, a dire la verità, ma immagini, parole, pensieri come questi non li ho mai trovati. Certo, io ho davanti l’immagine di queste parole immerse nei gesti, nella semplicità e nella trasparenza sconvolgente con cui anche i pensieri più profondi venivano da Don Giussani testimoniati con una semplicità che, in realtà, è la categoria più infrequente ma forse anche più preziosa nella nostra vita. E allora c’è una sola cosa che è insopportabile per l’uomo religioso, e possiamo esserlo tutti al di là delle nostre fedi, cioè negare che ci sia qualcosa di infinito in noi, qualcosa che Leopardi aveva colto, ed è questo il motivo per cui don Giussani lo amava, avendo scoperto in Giacomo Leopardi questa ansia di infinito, e poi la percezione che soltanto nella speranza – con la quale concluderò – è possibile ritrovare un senso nella vita.

La speranza, come ha scritto nella sua splendida enciclica “Spe Salvi” Benedetto XVI, è relazione, non dimentichiamolo mai questo. Ecco allora le parole di Giussani: “L’unica cosa insopportabile all’uomo religioso è che il nome…….” – è un tema questo di rovente attualità ed è per questo che profeticamente, anni fa, don Giussani aveva intuito l’enorme sviluppo che le neuroscienze stanno assumendo, ma anche certi rischi fatali che sul piano del riduzionismo queste scienze arrivano a proporre, come se tutto potesse essere ritrascritto in termini di semplice fisiologia o neuro-fisiologia. La natura invece si pone davanti all’immagine del mistero che la fa cosciente di sé, autodeterminantesi, libera. “E’ contro questa riduzione, contro il riduzionismo che oggi è cosi dilagante, che noi ci ergiamo”. Questa parola non è infrequente in don Giussani. Questa rivolta interiore a volte è indispensabile, necessaria, quando l’anima sembra essere immersa nelle nebbie della speranza cristiana, ed è invece sommersa dai soli accecanti delle avanzate tecnologie che lasciano scoperta, insicura, debole la nostra anima, soprattutto la nostra speranza. Cito anche un pezzo in cui Giussani parla di un filosofo marxista che ha scritto un libro importantissimo perché ha saputo cogliere anche le contraddizioni che esistono nella speranza. Faccio questa citazione anche perché così possiamo cogliere ancora una volta la dimensione sconfinata della cultura non solo religiosa e teologica, ma anche filosofica di don Giussani. “Diceva Bloch – ne Il Principio Speranza, per chi abbia voglia di leggere i tre volumi di più di mille pagine – che all’inizio di questo secolo la scienza troppe volte racconta una infinità di piccole verità in funzione di una grande menzogna, e la grande menzogna è quella che io – don Giussani, appunto – ho chiamato riduzione dell’uomo”. Da una parte c’è questo invito, questo slancio continuo a guardare dentro di noi, dall’altra la coscienza che siamo liberi, e allora siamo anche liberi di trasformare la solitudine, che di per sé, è anche un’esperienza umana altamente significativa come anche don Giussani ha scritto, in isolamento. Ma dobbiamo riuscire a fuggire, a cancellare le tracce dell’edonismo, dell’egoismo feroce che tende a fare di ciascuno di noi, come abbiamo sentito da Rondoni, delle monadi con delle finestre sempre chiuse che non guardano. A che cosa non guardano? Al dolore che c’è nel mondo, ma anche alle gioie che ci sono nel mondo, alle gioie che possono essere vissute interiormente soltanto se riusciamo a donarle a qualcuno, a qualcosa che ancora una volta ci riconfermi come non siamo fatti per essere soli, per l’isolamento, per la solitudine negativa, per l’egoismo. Siamo fatti invece per aprirci continuamente all’incontro con gli altri.

Una delle esperienze recenti che più mi hanno sconvolto e che ancora oggi mi commuovono, ho potuto viverla, coglierla, anche in questo incontro che ho avuto a Milano con le famiglie dell’accoglienza. Qui ho trovato una testimonianza straordinaria di che cosa significhi vivere una speranza personale non per chiuderla nei confini del nostro io, della nostra solitudine, ma invece per donarla agli altri. In realtà la speranza oltre ad essere relazione, come ha scritto Benedetto XVI, è anche donazione di sé, capacità di trasmettere la torcia della speranza. Questi contesti famigliari cosi osteggiati, cosi feriti, a volte anche cosi sopraffatti da realtà alle quali non è possibile resistere, con quello che fanno miracolosamente per l’assistenza mi hanno fatto capire che cosa avrei potuto proporre a chi sta parlando e anche a voi: essere soli, vivere una condizione di isolamento assoluto si può a volte, anche se questa è l’ultima delle condizioni umane, quando la speranza, questa stella del mattino che comunque accompagna sempre la nostra esistenza e la nostra vita, si riaccende, anche nel momento in cui le ombre della vita si fanno intense.

Mi avvio alla conclusione di questa mia riflessione che riesco a fare solo quando salto e trovo assemblee in cui non posso non riconoscere questa voce segreta che parla in noi, che ci rende gli uni vicini agli altri, sia pure nel silenzio perché questa appunto è la voce della speranza, dell’isolamento riscattato e trasformato in solitudine. Anche queste bellissime immagini che ho visto adesso del carcere mi sembra proprio che dimostrino come la dimensione umana dei carcerati, l’essere soli senza speranza, l’essere soli senza nemmeno il desiderio dell’altro e non solo l’essere soli senza l’altro, possa appunto mutare in solitudine, questo vuole essere il piccolo messaggio che vorrei lasciare a chi ci sta ascoltando e anche a me che sto parlando. Anche in condizioni di isolamento estremo, anche quando non sembrano esserci più finestre che si aprono nella nostra anima, quello che accade fuori da queste situazioni, questa donazione continua agli altri, può trasformare l’isolamento, questo silenzio muto, in una solitudine che continua certo nel carcere ma che si trasforma in una condizione umana dalla quale non possiamo certo fuggire.

A questo punto cito Etty Hillesum, come ho fatto anche quando ho parlato a questo incontro sulle famiglie dell’accoglienza, che sono ancora cosi incredibilmente vive in me, perché è una testimonianza altissima, una delle più belle che si possa dare. Qui ci sono moltissimi giovani che comunque conoscono certo la storia, sanno che cosa è accaduto in quei luoghi terrificanti da cui si è levata poi, ad esempio, la voce di una testimonianza luminosissima, radiante, redentrice e profetica. Etty Hillesum, che è stata prigioniera in un campo di concentramento tedesco, ha scritto un diario brevissimo che siete in dovere di ricordare, come Marina Corradi che scrive su Avvenire ha fatto trasformandolo in una riduzione drammaturgica, cogliendo e salvando anche lo spirito essenziale della cosa. Ho voluto in qualche modo storicizzare il mio discorso, legando le sue parole alla parola infallibile di don Giussani ma anche a quelle che sono le testimonianze inconscie. Etty Hillesum di certo non lo ha mai conosciuto, ma le cose che dice mi sembrano davvero vicine a quelle che don Giussani ci ha testimoniato e che ci continua a testimoniare. Che cosa poteva accadere a lei prigioniera? In quella condizione di terrore senza fine non poteva se non essere travolta dalla disperazione e dalla perdita di ogni speranza, e senza speranza si muore. Etty Hillesum dice: “Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offre riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più ‘raccolta’, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera, diventa per me una realtà sempre più grande”. Ecco allora come da un titolo che spalanca orizzonti dinnanzi a noi possono anche scaturire esperienze di vita, come quelle che ho cercato di raccontare, esperienze di vita come quella di Etty Hillesum.

Ma in questi pochi minuti che rimangono vorrei fare un ultima citazione di Don Giussani, perché potrebbe nascere in voi la domanda su come si possa oltrepassare l’isolamento in cui a volte anche noi precipitiamo, o su come si possa superare la solitudine, sebbene bella intensa e profonda, quando si prolunga troppo impedendoci di trasformarla in una matrice di comunione e comunicazione. Si può andare oltre soltanto se ci capita di incontrare qualcuno, nel nostro cuore prima di tutto, certo, ma anche nella nostalgia e nella realizzazione di un incontro. E allora ecco l’ultima citazione di Giussani: “La parola incontro implica in primo luogo qualcosa di imprevisto e di sorprendente”. Il passante ve lo ricordate, il mendicante sul quale anche don Giussani ha scritto, su cui ha detto cose che sono uno scandalo per la coscienza moderna ma che dovrebbero essere invece uno stimolo profondo per le nostre coscienze. In secondo luogo la parola incontro implica qualcosa di reale che ci tocca concretamente, che interessa la nostra vita. Cosi inteso ogni incontro è unico, anche quello di stasera per me, perché le circostanze che lo determinano non si ripeteranno mai più così. Proprio perché ogni incontro, auguriamoci che la nostra vita sia piena ogni giorno di incontri con altri, è un brano preciso della voce che chiama ciascuno di noi per nome, ogni incontro è una grande occasione offerta dal mistero di Dio alla nostra libertà. Il mio cammino si chiude qui, grazie.