Solitudine di chi vive un’esperienza psicotica, della famiglia, degli operatori, della società

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Relazione del Dott.Nano Direttore Dipartimento salute mentale Sud – (Novara -Galliate)

L’attività del Tavolo “La Comunità che guarisce”, anche nel corso di quest’ultimo anno, si è articolata in diverse iniziative, il cui comune denominatore è stato, a mio avviso, il tentativo di affrontare un tema spesso trascurato dai manuali classici di psichiatria o dalle relazioni degli amministratori sull’assistenza psichiatrica: la solitudine.

  •  Solitudine di chi vive un’esperienza psicotica
  • Solitudine della sua famiglia
  •  Solitudine degli operatori psichiatrici
  • Solitudine della società

La solitudine di chi vive un’esperienza psicotica. **

La solitudine drammatica di chi vive arroccato in un suo mondo privato, di simboli e di cifrari segreti, la cui esistenza è ridotta a “sensazione di non esistere”, come conseguenza della frammentazione della mente.

La solitudine come risposta all’ansia panica di perdere la propria identità nell’incontro con l’altro, sentito come pericoloso, profondamente remoto ed estraneo a sé.

La solitudine di chi è costretto ad adottare un linguaggio spesso incomprensibile, come tentativo di comunicare e non comunicare allo stesso tempo, di proteggersi, di nascondersi, di studiare l’interlocutore e di evitare così di essere ferito, sfuggendo l’incontro con l’altro attraverso l’uso di parole spesso criptiche ed oscure.

La solitudine di chi apparentemente, solo apparentemente, presenta un’indifferenza affettiva, un distacco, oggettivamente osservabile, segno dell’esperienza soggettiva di chi ha drammaticamente trovato nel senso di vuoto, di morte, di nulla e nell’evitare di provare affetti, la “migliore soluzione possibile”, in quel momento, per mantenere un sia pur precario sentimento di sicurezza, salvaguardandosi da sentimenti troppo intensi derivanti dall’accostarsi emotivamente ad un’altra persona.

L’animo umano però, costruito secondo un disegno comunicativo, fa sì che, pur nella distorsione dell’esperienza psicotica, si presentino risorse, vie traverse, che indirizzano il messaggio lungo una via dialogica. Così il paziente, per uscire dalla sua solitudine, ci pone nella condizione di comunicare con lui attraverso il canale dei sintomi, che possono rappresentare provvisoriamente l’unico modo di esistere, ponti di comunicazione, messaggi dotati, a modo loro, di senso e di coerenza che attendono di essere decodificati.

E allora a volte si possono rompere le catene di questa prigione di solitudine: affrontare il problema di fondo di chi vive un’esperienza psicotica, il “dilemma bisogno-paura”, il simultaneo avvicinamento ed allontanamento dall’altro operato dal paziente psicotico. Un paziente che ha certo grande difficoltà ad uscire dal suo mondo privato, ma che conserva una formidabile capacità di leggere l’inconscio dell’altro, come ben sa lo psichiatra di questi pazienti.

Ma lo psicotico che accetta il rischio, rischio tremendo, di uscire timidamente dalla sua prigione di solitudine, lo psicotico che torna tra noi, cosa incontra?

La possibilità di contare su di una rete vivente fatta di altri disposti ad accoglierlo può essere buon antidoto alla solitudine e configurarsi come necessità vitale, perché là dove non esiste tale rete il paziente rischia di evadere definitivamente dalla propria vita nel delirio e nella morte.

 La solitudine della famiglia.

Famiglie colpevolizzate ed abbandonate. Colpevolizzate anche da noi psichiatri dopo superficiali e frettolose letture sull’eziologia dei disturbi psichici, ritenendo a torto i familiari “colpevoli”, come se “coscientemente” un padre e una madre provocassero la malattia nei loro figli, malattia che alla fine può segnare la vita dell’intera famiglia.

Famiglie colpevolizzate ed abbandonate di fronte a qualcosa, come l’esordio di un’esperienza psicotica, senza gli strumenti necessari per comprendere quanto sta accadendo e per correre al riparo.

Abbandonate anche da un potere politico che ha visto nella chiusura degli ospedali psichiatrici, più che un modo nuovo e rivoluzionario di accostarsi al disturbo psichico, l’occasione per un risparmio economico non creando strutture alternative, strutture indispensabili anche per evitare drammatiche conflittualità intrafamiliari.

La solitudine degli operatori psichiatrici.

Il lavoro nel campo della salute mentale, anche in condizioni ottimali, sottopone la mente degli operatori che si occupano di pazienti gravi ad intense e a volte insopportabili emozioni:

• emozioni di svuotamento, con il timore che il paziente possa quasi privarci dei nostri pensieri;

• emozioni di invasione, con il timore che la nostra mente possa essere completamente invasa da deliri ed allucinazioni;

• emozioni di mancanza di senso, con un viverci inutili, impotenti e soprattutto inadeguati nei nostri sforzi terapeutici.

A tali forti emozioni, l’équipe curante può rispondere in modo poco idoneo alla cura, come ad esempio:

• il ricorso ad un attivismo frenetico che può portare ad una iperprescrizione farmacologica o ad un ingiustificato moltiplicarsi di attività socioterapeutiche;

• oppure (situazione opposta) una rassegnazione terapeutica che non solo determina l’inevitabile fallimento di qualsiasi progetto di cura, ma favorisce la cronicità.

• o, ancora, la messa in atto di pratiche di isolamento, ammantate magari di modernità, con la costruzione di eleganti reception con i loro vetri divisori o con un’ingiustificata diffusione di computer con i loro schermi colorati, dietro cui proteggersi oggi dalle intense emozioni suscitate dai pazienti come ci si proteggeva ieri con muri di segregazione e di isolamento.

Un’ istituzione può rispondere però alle intense emozioni che provengono dal mondo psicotico anche in modo diverso e ben più costruttivo, mantenendo l’investimento emotivo sul paziente e sulla cura. Rispondere dunque come una “madre sufficientemente buona”, capace di aiutare nelle esigenze di trasformazione, restituendo al paziente, dopo averli metabolizzati nella propria mente, gli elementi tossici che impediscono il suo sviluppo.

Ma per svolgere tale attività di cura è necessario che l’équipe terapeutica sia coesa e che sappia riflettere su ciò che accade al suo interno e soprattutto che, in tale sforzo mentale, non si senta isolata nel contesto sociale in cui lavora.

Non si senta sola – e qui ritorna ancora il tema della solitudine – e soprattutto non abbia un mandato sociale contraddittorio (“cura e custodisci”) o impossibile (“cura e risparmia”), dove la terapia – dovendo risparmiare – diventa esclusivamente intervento farmacologico (senza né psicoterapia né riabilitazione) e le funzioni assistenziali di luogo di cura vengono di fatto quasi interamente delegate alla famiglia.

 La solitudine della società.

Una società pervasa da incertezza, paura, disagio, disorientamento, una società pervasa da solitudine, può essere tentata dal miraggio di una sicurezza derivante dall’accentuazione dell’individualismo, dalla competizione di mercato, dal privato a spese di una riduzione dello Stato sociale (scuola, sanità, previdenza, ricerca), nell’accentuazione dello stigma nei confronti di chi è diverso per colore della pelle, per censo, per religione, per pensiero.

Il paziente psicotico con il suo pensiero che segue logiche sue proprie, le logiche del delirio, diventa allora una sfida formidabile alla società tutta nell’operare una scelta tra segregazione/stigmatizzazione da un lato e comprensione/accettazione dall’altro.

Qualcuno ha scritto, nel secolo scorso, che il comportamento di una società di fronte ai disturbi psichici è una delle testimonianze più sensibili del suo livello di civiltà.

Solidarietà, sicurezza, equità, speranza possono diventare finalmente cura nei confronti di una solitudine (del paziente, della famiglia, degli operatori psichiatrici, della società) altrimenti destinata a diventare disperazione

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**(l’esperienza psicotica non è sinonimo di psicosi e può manifestarsi in situazioni critiche di scissione, di rottura e di alienazione dell’io: esistono circostanze in cui il soggetto umano non riesce a elaborare i problemi dell’esistenza. Tra delirio e realtà si svolge quindi il dramma della realizzazione di sé nel mondo, nel dissidio tra i valori individuali della persona e quelli della società e della cultura – S. Resnik)