Tutte le “malattie” svelate dal cellulare

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Il telefonino forse non provoca nuove patologie, ma certamente amplifica quelle che uno già possiede, le evidenzia, le rende pubbliche, le mostra a tutti.

Se fossimo buoni osservatori di noi stessi, forse, per conoscerci, potremmo risparmiare sulle sedute psicoanalitiche e prestare attenzione all’uso che facciamo del telefonino, che è un grande rivelatore del rapporto che noi abbiamo con la realtà e con gli altri. Così almeno pare dalla lettura di un libro istruttivo scritto dallo psicoanalista Luciano Di Gregorio, Psicopatologia del cellulare (Franco Angeli, pag. 176, euro 15).

Da un punto di vista psicologico il telefonino è un regolatore della distanza e un moderatore della separazione, determinata non solo dalla distanza fisica, ma soprattutto da quella più intollerabile di natura sentimentale che nasce dai vissuti di mancanza e di perdita del contatto con l’altro.
E’ un sentimento questo che abbiamo provato più volte da bambini quando la mamma si assentava. La possibilità che il telefonino ci offre di superare questa distanza e sopperire a questa assenza, dice quanto le sindromi infantili sono presenti e attive in noi, e quanto, incapaci di superarle, le tamponiamo con il mezzo tecnico. Ma chi è un uomo che non sa tollerare la distanza e l’assenza, che non sa stare solo con sé, che traduce subito la solitudine in un vissuto d’abbandono, quando non addirittura in una perdita di identità?
“Pur avendo il telefonino sempre acceso non mi chiama nessuno, quindi non sono nessuno”. I sentimenti non hanno mediazioni razionali, il loro modo di procedere è da corto circuito. Le conclusioni arrivano presto. E allora mettiamoci noi a telefonare, non perché abbiamo davvero qualcosa da dire, ma per soddisfare un bisogno di sicurezza incrinato, da ricostruire con contatti continui, per non dire compulsivi. Non tolleriamo la distanza, non sopportiamo l’assenza, viviamo come dono degli altri, come loro concessione, in uno stato di dipendenza parziale o totale, che la dice lunga sul nostro stato infantile e sulla nostra mancanza di autonomia.
Sappiamo però che l’infanzia non conosce solo la dipendenza, ma anche l’onnipotenza. Un’onnipotenza magica, che forse compensa la dipendenza reale del bambino nei confronti degli adulti che lo aiutano a crescere. Il telefonino soddisfa anche il bisogno infantile di onnipotenza, garantendo illusoriamente il dominio e il controllo delle persone e degli eventi che ci interessano, con conseguente ridimensionamento dell’ansia ad essi connessa.

L’ansia non viene più elaborata. Ma immediatamente agita e placata dalla risposta e dalla rassicurazione dell’altro. Ciò comporta che le nostre capacità interiori di gestire ansie e conflitti si indeboliscono progressivamente, e al loro posto subentra quella sorta di delirio di onnipotenza che ci dà l’illusione, ma non più che l’illusione, di poter controllare la realtà a distanza con la semplice attivazione di un auricolare. Col telefonino trasformiamo così una condizione di reale impotenza, che alimenta in noi una tensione emotiva, in un gioco illusorio di dominio sul mondo.
Ma qui il rimedio è peggio del male perché, se per placare l’ansia abbiamo bisogno del controllo, il controllo a sua volta alimenta i nostri vissuti paranoici, per cui incontenibili diventano le nostre verifiche sulla vita delle persone che ci interessano, sui luoghi che frequentano, sugli spostamenti che effettuano nell’arco della giornata, sulle persone che incontrano e sulle cose che fanno in nostra assenza.

In nome dell’amore ci trasformiamo in investigatori privati che, in ogni momento vogliono sapere dove si trova il compagno, la compagna, la moglie, il marito, la figlia, il figlio, sempre che essi ci raccontino la verità quando li raggiungiamo col telefonino, e a condizione che noi si sia abbastanza abili a captare alcuni segnali, i rumori di fondo, le voci d’attorno, e ora anche le immagini, che ci possono fornire utili indizi per alimentare la nostra ansia o garantire la nostra quiete.
Questo bisogno di controllo sottintende un radicale sentimento di incertezza e di sfiducia, che noi limitiamo allo spazio esistenziale privato, per nasconderci che, forse, questo spazio è più ampio, perché investe il nostro presente e il nostro futuro, su cui non esercitiamo alcun controllo, e perciò riversiamo l’ansia che ne deriva sullo spazio personale e relazionale che ci riguarda da vicino. Quanta nostra radicale impotenza a governare la nostra vita scarichiamo sul controllo di quei malcapitati che sono i nostri familiari e i nostri amori?

La rassicurazione che nasce dell’aver un certo controllo sulla realtà personale porta l’individuo a immaginare di possedere strumenti di controllo anche sugli eventi sociali, sugli imprevisti della strada, sulle anomalie del clima, e quindi di non essere in balia degli eventi, e di tacitare quel sentimento, alla base dell’angoscia primitiva, che è il terrore dell’imprevedibile, vero motore delle ricerche tecnico-scientifiche, di cui il telefonino è il mezzo più potente nelle nostre mani.
Ma l’onnipotenza non è vera onnipotenza se non è esibita, e l’esibizionismo è un’altra patologia che il telefonino ostenta fino a giungere alla pubblicizzazione dell’intimo, del personale, del segreto, del riservato. Ci sono persone di ogni età che usano il telefonino per strada ed hanno visibilità ai propri sentimenti e ai propri rapporti affettivi. Aggiungono volentieri dettagli intimi e, senza mostrare vergogna, dicono in pubblico certe frasi volutamente a voce alta, come se fossero in preda a un bisogno di visibilità.

Le espressioni del loro viso, dopo la telefonata, non ci fanno pensare a un senso di vergogna, nato dall’essere state colte inopportunamente in un momento delicato della conversazione. Noi siamo stati solo dei testimoni involontari del loro bisogno di rendersi visibili. Alla fine esse sembrano molto soddisfatte di essere state colte nella loro intimità da un pubblico ignaro, chiamato a raccolta per l’occasione. In fondo “non hanno nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi” che, tradotto, significa scambiare la spudoratezza per sincerità, e guadagnare visibilità a buon mercato, solo con il costo di una telefonata.

Il bisogno di visibilità la dice lunga sull’angoscia di anonimato in cui gli individui, nella nostra società, si sentono affogare. “Anonimato” qui ha una duplice e tragica valenza. Da un lato sembra la condizione indispensabile perché uno possa mettere a nudo, per via telefonica, i propri sentimenti, i propri bisogni, i propri desideri profondi, le proprie (per)versioni sessuali; dall’altro è la denuncia dell’isolamento dell’individuo, che ciascuno cerca a suo modo di colmare attraverso contatti telefonici dove, senza esporre la propria faccia, si soddisfa il bisogno di essere al centro dell’interesse di qualcuno, di non sentirsi soli al mondo e del tutto isolati in un solipsistico rapporto privato tra sé e quel vuoto di sé che ciascuno di noi avverte quando può vivere solo se un altro lo contatta.

Come i bambini possono incominciare ad abitare il mondo, a padroneggiare la realtà e a instaurare relazioni affettive tramite gli orsacchiotti e i giocattoli preferiti, così sembra che noi adulti non siamo più capaci di abitare il mondo e di garantirci le relazioni affettive senza quel tramite che è il telefonino, in nulla dissimile dall’orsacchiotto o dal giocattolo preferito dal bambino.

Che dire a questo punto? Che i nostri sviluppi tecnici, di cui andiamo tanto fieri, portano a una progressiva infantilizzazione di tutti noi e in generale della società in cui viviamo? E se proprio qui si nascondesse la vera patologia sottesa all’uso indiscriminato del cellulare che, come fa osservare ironicamente Luciano Di Gregorio nella conclusione del suo libro, per uno strano scherzo lessicale, ha lo stesso nome del mezzo che si usa per il trasferimento dei detenuti?

Di Umberto Galimberti

Fonte: http://www.repubblica.it/2004/b/sezioni/spettacoli_e_cultura/cellu/cellu/cellu.htm