La solitudine e’ una sofferenza, ma anche una risorsa

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La solitudine e’ una sofferenza, ma anche una risorsa Come cantava Gaber «e’ indispensabile per star bene in compagnia»:coltivare il dialogo interiore, prendere coscienza del se’ piu’ autentico, diventa una forma di autoterapia

La malattia piu’ grave non e’ la lebbra o il cancro, ma la sofferenza dovuta al sentirsi trascurati, abbandonati e soli». Questa la convinzione di Madre Teresa di Calcutta, maturata in una vita tutta spesa contro la malattia e la poverta’.

Il dolore piu’ forte non si annida nelle piaghe della carne, ma in quelle dello spirito.

E assume il volto della SOLITUDINE, della mancanza di legami soddisfacenti, dell’isolamento. Chi e’ in questa condizione corre non pochi rischi, sia psicologici che fisici. La solitudine predispone alla malattia quanto il fumo, l’obesita’ o la pressione alta, e puo’ a lungo andare indebolire anche le difese immunitarie. Tra le cause dei suicidi e dei tentativi di suicidio, l’isolamento e’ una delle piu’ frequenti. Sono poi noti i legami della solitudine con la depressione, la bassa autostima, alcune forme di nevrosi, sintomi ansiosi, tendenze aggressive,ecc.: tutti stati d’animo alterati o incerti oggi particolarmente diffusi.

Spunti come questi sono alla base dei lavori degli psicologi sul tema della solitudine, i cui primi contributi datano a circa 50 anni fa. Essi costituiscono anche il punto di partenza del volume Sentirsi soli di Maria Miceli, ricercatrice del Cnr di Roma, che tuttavia si muove in un quadro piu’ ampio.

Leggere la solitudine (e le sue sofferenze) puo’ aiutare a capire cosa desideriamo o ci aspettiamo dagli altri e offrirci una prospettiva nuova da cui guardare all’intimita’, all’amicizia, all’amore. Inoltre, la solitudine non e’ soltanto una carenza, ma puo’ rappresentare una risorsa a disposizione del singolo per ritrovare una sua identita’ di fondo, anche in una societa’ difficile come l’attuale. Di qui gli interrogativi su cui e’ costruito il lavoro.

La solitudine e’ un’epidemia contemporanea oppure e’ una esperienza universale, un «rischio» che si corre per il fatto stesso di esistere? Che differenza c’e’ tra l’essere soli e il sentirsi soli? Perche’ oggi si e’ attratti da chi compie grandi imprese solitarie (eremiti, navigatori, cultori di sport estremi, ecc.), mentre si teme la solitudine in una vita quotidiana pur densa di rapporti e di bagni di folla? Ancora, quali sono i fattori oggettivi e soggettivi che piu’ espongono le persone alla solitudine? Infine, come intervenire? Che fare per non sentirci soli?

Vari letterati e filosofi hanno celebrato la solitudine «positiva», cui Giorgio Gaber ha dedicato una nota canzone: «La solitudine non e’ mica una follia, e’ indispensabile per star bene in compagnia».

E’ la capacita’ di stare bene con se stessi, di coltivare il dialogo interiore, di prendere coscienza del «se’ piu’ autentico». Saper stare da soli ci aiuta a stare meglio con gli altri, perche’ si ha qualcosa da offrire e da scambiare.
Altrimenti nei rapporti si rischia di essere troppo dipendenti e opprimenti, troppo ansiosi di contatti e di conferme affettive. Tuttavia, degli altri abbiamo un gran bisogno e il deficit di rapporti soddisfacenti e’ dietro l’angolo della vita di ognuno, anche di chi ha un’agenda molto fitta di impegni o di un adolescente che si sente incompreso dai genitori.

La solitudine, infatti, e’ un malessere molto «democratico», che non risparmia nessun gruppo sociale. All’essere soli sono ovviamente piu’ esposte alcune categorie di persone, come gli homeless, i vedovi, i vecchi, gli immigrati. Ma questa carenza coinvolge molte vite «normali» e anche i rapporti matrimoniali.

Tra gli sposati, sono le donne a sentirsi piu’ sole, mentre tra i non sposati (vedovi, divorziati e single) sono piu’ gli uomini a soffrire di solitudine. Le donne, cioe’, sembrano piu’ in grado di vivere da sole, ma in una vita a due tendono a essere piu’ esigenti, per cui sentono la solitudine quando la qualita’ del rapporto e’ debole. Gli uomini invece hanno piu’ bisogno di una vita di coppia, pur essendo meno esigenti in tema di comunicazione. Gli psicologi distinguono tra una SOLITUDINE affettiva e una SOLITUDINE sociale.

I sintomi della prima sono l’ansia da separazione, il senso di abbandono e di vuoto, di grande vulnerabilita’ e impotenza. E’ la paura di non farcela di fronte agli impegni ordinari della vita. Qui il sentirsi soli puo’ essere la conseguenza della perdita di una persona cara, ma puo’ anche essere dovuto a una privazione di attaccamento tipica di un’infanzia infelice.

La SOLITUDINE SOCIALE si esprime invece nella difficolta’ a collocarsi nella societa’, per cui ci si sente fuori posto, non accettati e riconosciuti, o addirittura esclusi e rifiutati dagli altri. Queste carenze possono in parte essere compensate da strategie personali e terapie capaci di riconciliare l’individuo con il se’ ultimo.

Cosi’ si puo’ stare da soli senza sentirsi soli e la capacita’ di stare con se stessi aiuta a vincere il senso di solitudine. La proposta di una particolare terapia per combattere l’inquietudine e’ oggetto anche del volume Autoanalisi per non pazienti con cui Duccio Demetrio, filosofo dell’educazione alla Bicocca di Milano, ritorna sul tema a lui caro del «raccontarsi». A questa tecnica facciamo sovente ricorso nella vita quotidiana, per ritrovare il bandolo dell’esperienza, per narrare momenti e stati d’animo particolari. Cio’ vale in particolare nel caso della scrittura introspettiva, che si alimenta di diari e poesie, di meditazioni e racconti, ma anche di qualche biglietto e di poche righe che riflettono la frammentarieta’ del vivere. E’ un modo per fissare emozioni e sentimenti, per lasciar traccia del vissuto, per cogliere un se’ che pulsa dentro e oltre la vita ordinaria. Tracce, indizi, parole di se’ che non placano necessariamente l’inquietudine, ma che possono essere il sintomo di una ricerca interiore e della passione di esistere

Autore Franco Garelli –  07-02.’04

Fonte TUTTOLIBRIwww.lastampa.it