L’immensa solitudine delle donne

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Ancora, in Val d’Aosta, è il tempo della strage dei pulcini.Essi vanno a morire con la chioccia che ha perso il senso dell’orientamento, la salute del corpo, la speranza del cuore.
Non è che i bambini siano malmenati, violati o uccisi soltanto oggi. Nel tempo questo è sempre avvenuto. E’ che oggi se ne parla di più. E’ che più non si tace!

E spesso le morti in culla, i bambini feriti, menomati; i molti “incidenti” dai quali, soltanto qualche anno fa, i ragazzini uscivano mezzi morti o morti del tutto, stavano a coprirne la disperata violenza degli adulti: adulti ammalati, aggressivi, distruttivi, mentalmente instabili che finivano con lo scaricare sui bambini la loro voglia di morte.

Infatti, fino a qualche anno fa, un bambino che finiva al pronto soccorso con echimosi, lividi, ferite, cicatrici, strani arrossamenti, poteva essere curato senza il sospetto che avesse subito violenza. E, poi, rimandato a casa. Nessuno voleva pensare, o meglio, osava pensare che a ridurlo così erano stati proprio i suoi genitori. Oggi sappiamo che l’odio degli adulti (adulti che, da bambini, sono stati “uccisi” dentro) si scatena a colpire la fragilità di chi è in crescita. Ma sappiamo anche che, oggi, i bambini sono “soggetto” di diritti. A loro tutela ci sono delle leggi.

E sappiamo che per tutelarli “veramente” bisogna “prevenire” la gravità dei disturbi che possono nascere in famiglia (depressione, devianza, criminalità, abbandono, indifferenza, abuso) monitorando e controllando, già dall’inizio del loro venire al mondo, da quali genitori saranno allevati.

Ma chi può fare questo lavoro di prevenzione? Ad esempio, il ginecologo che segue la madre prima del parto e che, magari, la prepara e che “dovrebbe” lavorare in equipe con esperti di psicologia e psichiatria, il che la aiuterebbe a cogliere quel disagio; per esempio: il “medico di base” che conosce la famiglia; per esempio il pediatra che può accorgersi, tra l’altro, di una depressione post-partum poiché, per assistere il bambino che è nato egli sa benissimo che anche la madre deve star bene e che è necessario aiutare anche la madre a prendersi cura di sé.

La famiglia, poi, dovrebbe fare attenzione al disagio post-partum di una donna, dovrebbe sostenerla quando porta il peso di più figli da crescere. Un marito dovrebbe, anzi deve, comprendere che quando nascono dei figli, una donna attraversa sempre una crisi post-partum nella quale passa dalla “pienezza di contenere la vita” al dover “elaborare il lutto” di essere vuota dopo aver partorito. E che c’è, poi, la fatica di allattare; l’enorme responsabilità di crescer un bambino che, inizialmente, deve dipendere, per tutto e per tutto, dalla madre. Ma dove sono i familiari che dovrebbero aiutare la donna che ha partorito mentre, giorno dopo giorno, riacquista, si spera, il suo equilibrio ormonale? Dov’è il marito che dovrebbe far vivere alla donna l’evento di aver dato “vita alla vita” come l’espressione della sua forza, generosità, “specialità”? Dov’è l’uomo che accetta il “dono” del figlio e lo difende anche dal pericolo della depressione, dalla fatica, dalle responsabilità che una donna deve affrontare? La solitudine delle donne che non chiedono aiuto perché non sono state educate a farlo e che le altre donne non aiutano perché non sono interessate a farlo, è immensa.

E grande, indegna, inaccettabile, ingiustificabile è la solitudine di questa madre che lancia un messaggio, che cerca un appoggio affidando, prima di tentare un suicido, che si trasformerà più o meno consapevolmente nell’omicidio di due bambini, tutta la sua depressione, paura, difficoltà, alle parole di una lettera.

Quella lettera non avrà risposta perché è costume degli uomini, delle famiglie e della società non dare risposta, sostegno ad uno dei momenti più importanti della storia di ciascuno e di quella dell’umanità: il dare vita alla vita.La maternità.

Fonte: http://ilrestodelcarlino.quotidiano.net/chan/2/2:3479373:/2002/06/27